mashriq / arabia / iraq | indigenous struggles | press release Wednesday May 21, 2014 20:21 by Ilan S. – AAtW, ainfos Ahdut (Unity)
Adottato il 25 Aprile 2014 dai militanti dell’organizzazione comunista-anarchica Ahdut (Unità) attiva in Palestina/Israele
Il progetto coloniale sionista, sponsorizzato dalle potenze imperialiste, ha soggiogato la Palestina sia compiendo ogni sforzo possibile per l’espulsione delle popolazioni indigene residenti nell’area interessata, sia concentrandole in enclaves chiuse. Una parte della popolazione palestinese ha evitato l’espulsione diventando cittadini di Israele ed andando incontro a discriminazioni sia giuridiche che pratiche. E lo Stato di Israele persiste nell’adottare misure che ne fanno cittadini emarginati. Recentemente queste misure si sono concentrate nel Piano Prawer per il Negev, che evoca il piano di giudaizzazione della Galilea degli anni ’70 insieme ai fatti della Giornata della Terra del 30 marzo 1976. Un’altra parte della popolazione palestinese vive nei territori occupati da Israele nel 1967, per lo più sotto giurisdizione militare. In questi territori, le autorità militari israeliane hanno una grande libertà di azione nel decidere se sgomberare i palestinesi o concentrarli in enclave, più di quanta ne possano avere all’interno degli stessi confini israeliani. Oltre a porre gradualmente sotto assedio la maggior parte delle terre palestinesi, Israele impedisce ogni sviluppo economico sia individuale che collettivo della popolazione palestinese, nega la libertà di movimento, di riunione e di parola e reprime con vari mezzi la resistenza dei palestinesi contro l’occupazione e la colonizzazione in atto. Tuttavia, è il caso di notare che in Palestina non ci sono due economie separate: nelle aree del 1948 i Palestinesi erano pienamente integrati nell’economia israeliana – sia come lavoratori salarialmente discriminati sia come residenti di città e di di villaggi sotto-sviluppati ed una parte considerevole dei Palestinesi in Cisgiordania lavora per proprietari israeliani o per imprese locali, che vendono i loro prodotti sul mercato israeliano – sia negli insediamenti coloniali in Cisgiordania sia nel mercato interno israeliano.
La maggior parte dei Palestinesi espulsi dal paese nonchè i loro discendenti, come pure molti di coloro che hanno evitato l’ondata di sgomberi e di espulsioni, vivono internamente come profughi o come persone sfollate, sia nei territori conquistati da Israele nel 1948 o nel 1967 sia nei paesi confinanti.
Nel corso degli anni, i Palestinesi hanno resistito agli sgomberi, all’oppressione ed allo sfruttamento. In varie località, la resistenza ha assunto varie forme: a volte solo dimostrative o simboliche, a volte di azione diretta, a volte di lotta armata, altre volte non-violente o ancora violente ma non armate. La maggior parte delle azioni di resistenza non prevedono la cooperazione con israeliani oppositori della politica sionista, ma altre forme di resistenza sì. La multiforme resistenza palestinese espressa dalla popolazione nel corso degli anni è riuscita soprattutto a ritardare ed a contenere i processi di sottomissione, ma purtroppo senza essera riuscita generalmente e rimettere indietro le lancette dell’orologio.
Noi non condividiamo l’illusione di alcune componenti in lotta tanto palestinesi che israeliane per le quali in questa spiacevole situazione si deve accettare la “soluzione dei due Stati”. La divisione della Palestina in due Stati è stata promossa per un centinaio di anni da potenze mondiali come il Regno Unito, la Francia, gli USA e l’URSS. Rientrava nelle loro strategie sul Medio Oriente, che è stato così condannato all’immobilismo, a regimi dispotici, ad uno stato di ostilità e di belligeranza etnica e religiosa, soffocando le aspirazioni ad uno sviluppo economico e politico delle popolazioni proletarie residenti nella regione. La costituzione di uno Stato Palestinese, su un territorio pari al 15% o al 25% della Palestina sotto l’ex-mandato britannico, non risolverebbe i problemi fondamentali del paese e certamente non “metterebbe fine al conflitto”: tutt’al più sarebbe un accordo di compromesso tra l’elite capitalistica israeliana ed il collaborazionista regime dell’Autorità Palestinese; agenti locali acquisirebbero così una franchigia legale per opprimere e sfruttare direttamente la popolazione palestinese a proprio vantaggio ed a vantaggio di interessi stranieri.
Certamente, un ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967 metterebbe un freno ai processi diretti allo spossessamento ed alla oppressione delle masse proletarie palestinesi che vivono lì sotto l’occupazione delle forze armate israeliane. Verosimilmente si ridurebbero le occasioni di frizione e di scontro tra gli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da una parte e le forze armate ed i coloni israeliani dall’altra, come pure si ridurrebbero le offensive militari israeliane, che alimentano le fiamme di un odio diffuso e rafforzano il nazionalismo che serpeggia tra i conquistatori come tra i conquistati. Nell’eventualità di un ritiro ci potrebbe essere anche un limitato ritorno dei rifugiati nei territori dello stato palestinese.
C’è da dire che un accordo che renda possibile uno stato palestinese solleverebbe a livello internazionale il problema della legittimità delle conquiste israeliane nella guerra del 1948 e della nakbah – cioè dello spossessamento, sradicamento ed espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dell’epoca (diventati oggi milioni). Un tale accordo porterebbe anche al rafforzamento della separazione politica ed economica del paese in due parti, in ognuna delle quali ci sono abitanti palestinesi, ma anche ad una separazione tra popolazione araba e popolazione ebrea. Il che ostacolerebbe la lotta per una giusta conclusione dello scontro con il movimento sionista -di cui le vittime principali sono i proletari palestinesi, ma che colpisce in vari modi anche i proletari ebrei all’interno di Israele. Finchè i profughi non ritorneranno e riavranno ciò che gli è stato rubato, finchè esisterà il regime nazional-sionista israeliano -che esclude, discrimina ed opprime i suoi sudditi palestinesi ed i cittadini-, non ci sarà nessuna “fine al conflitto”.
Un’altra parte dei proletari, specialmente tra i Palestinesi, è per la costituzione di uno stato democratico per tutti gli abitanti in Palestina-Israele.
Si dovesse costituire un solo stato, si potrebbero assicurare diritti civili uguali per tutti i cittadini e mettere fine alla discriminazione istituzionale ufficiale contro i Palestinesi. Si potrebbe ugualmente rendere possibile il ritorno dei profughi. Ma significherebbe anche lo smantellamento dello Stato di Israele e dell’Autorità Palestinese, sfidando le strategie delle potenze imperialiste. Un programma simile si baserebbe su una misura di speranza e non di disperazione o di acquiescenza con l’esistente ordine politico.
Tuttavia questa speranza viene sviata, perchè finchè non sarà sconfitta l’elite capital-sionista che governa Israele, l’unico solo stato disponibile è quello attualmente esistente. Anche se il tentativo di costituire un solo stato democratico avesse successo, non dimentichiamo che gli Stati in generale e quelli democratici in particolare, sono forme politiche costituite e gestite da una minoranza fatta di classi dominanti, allo scopo di mantenere un sistema di relazioni sociali fondato sull’oppressione e sullo sfruttamento. Il carattere di oppressione e di sfruttamento varia e diviene più sofisticato nei paesi più sviluppati, ma la sua essenza fondamentale non viene meno neanche per un istante. In uno stato del genere, i proletari palestinesi ed ebrei potrebbero ritrovarsi a vivere in una società futura simile a quella del Sud Africa, in cui c’è una piccola minoranza di capitalisti bianchi che insieme ai loro giovani soci non-bianchi possiedono la maggior parte dei mezzi di produzione e della terra, mentre le multinazionali godono di un’ampia libertà d’azione.
Noi riaffermiamo la conclusione a cui sono giunti i nostri predecessori nella lotta: sconfiggere la classe dominante capital-sionista ed insieme il suo progetto di colonizzazione e di spossessamento richiede una profonda rivoluzione sociale; dunque non solo una rivoluzione politica, ma una trasformazione delle relazioni di produzione e di tutte le altre relazioni sociali fondamentali. Inoltre, è ragionevole assumere che una tale rivoluzione sarà possibile solo su scala regionale e quindi anche in parecchi paesi vicini piuttosto che in maniera separata solo in Palestina-Israele. Solo una simile trasformazione renderebbe possibile la costruzione di una società non-autoritaria libera dallo sfruttamento, in cui la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza potrebbero davvero imporsi ed in cui verrebbe meno l’ostilità nazionalista accumulata nel tempo.
Oltre a quanto fin qui detto, ci corre l’obbligo di ribadire ciò che è ovvio: noi parteciperemo, sia come organizzazione sia come individualità, unitamente ai palestinesi residenti in Cisgiordania e ad altri attivisti israeliani, alla quotidiana lotta contro tutti gli aspetti dell’occupazione e dell’oppressione nei territori occupati dal 1967; noi sosterremo e coopereremo al meglio delle nostre capacità con la lotta degli abitanti di Gaza contro l’aggressione di Israele e contro l’assedio israelo-egiziano; e saremo attivi all’interno dei confini del 1948 contro la discriminazione, contro l’oppressione e contro lo spossessamento dei proletari palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana.
Ahdut (Unità)
(traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali)
blog: http://unityispa.wordpress.com/