Intervento integrale di Virgilio Caletti all’incontro Per non dimenticare Carlo Comaschi

Gussola, Circolo Arci Bassa, 12 marzo 2023

Dalla terra lusitana o, se preferite, dall’estrema periferia occidentale del continente, un caro e sincero saluto a voi tutti, unitamente al duplice auspicio che siate in molti e, soprattutto, stiate benissimo!
Ringrazio da subito gli organizzatori, ossia il Circolo Libertario Casalasco Eugenio Defendi, per l’opportunità offertami di trasmettervi qualche pensiero, qualche riflessione, qualche sentimento.
Il medesimo saluto e un doveroso, ossequioso ringraziamento lo indirizzo ai due illustri relatori, Azzoni e Rosa, che con il loro prezioso lavoro di ricerca concorrono in forma imprescindibile a salvaguardia e valorizzazione della memoria storica della sinistra nel nostro territorio; si badi, ho detto «lavoro di ricerca», dunque niente da spartire con la nozione di religio, che significa conservo, da cui religione e reliquia; effettivamente, il prodotto di tale lavoro ha poco a che vedere con ciò che è deputato – come una reliquia, appunto – alla mera custodia, salvaguardia, protezione e conservazione, bensì, in quanto il suo opposto, cioè ricerca viva, a quel che è destinato ed è capace di dispiegare e sviluppare progettualità ed energie irrinunciabili per qualsivoglia disegno di profonda, radicale e globale trasformazione sociale.
Premetto che era mia intenzione discorrere, ossia andare a braccio, come suol dirsi, ma dopo adeguata riflessione intorno al mio eloquio – certo involuto, tortuoso, prolisso e faticoso – ho optato per provare a dare forma scritta al messaggio e leggerlo.
Disponetevi, perciò, a pazienza, tolleranza, comprensione, indulgenza…
In estrema sintesi, quel che motiva e fonda il desiderio di comunicarvi quanto segue ben poco ha di allegro e men che meno di gioviale riducendosi, tutto sommato, a un sostantivo: rimpianto.
Ho detto rimpianto, non rimorso.
È quasi il caso di evocare la cosiddetta Psicologia dell’età evolutiva, dato che, forse in forma tendenzialmente infantile, tale sentimento è causato dal desiderio decisamente inesaudibile – per comprensibili ragioni biologiche e cronologiche – che tra le vostre fila, oggi, siano seduti altri che, invece e purtroppo, non sono più tra noi, ma che sicuramente sarebbero tra i presenti se le condizioni lo avessero permesso.
E mi auguro per davvero che tra di voi ci sia chi, sufficientemente maturo in termini anagrafici, possa ricordare chi vado a nominare.
Innanzitutto, mio nonno, Agostino Caletti, detto al gield, forse per la carnagione, che poco più di un secolo fa è stato tra i protagonisti di uno scontro armato con alcuni degli esponenti locali del più genuino e squisito squadrismo. Tra questi baldi giovani, in frenetica (stavo per scrivere in fregola) attività propedeutica alla semina del terreno su cui si sarebbe di lì a poco insediato il regime che sappiamo, ve ne fu uno che (il condizionale è d’obbligo) sarebbe stato giustiziato (la scelta del verbo non è casuale) da mio nonno Agostino, appunto. Ed è così che lo stesso si è guadagnato il diritto di trascorrere larga parte del ventennio tragico nelle patrie galere; tale condanna è stata comminata ad altri nostri concittadini, anch’essi ritenuti colpevoli o quantomeno coinvolti.
Penso, poi, alla di lui moglie, mia nonna Wanda, sulla cui statura morale, inversamente proporzionale a quella fisica, sarebbe quantomeno vano, per me, spendere anche una sola parola. Basti pensare che, semplicemente, le devo pressoché tutto.
In seguito, il pensiero va alla mia vicina e amica, sincera e grande amica Lella, al secolo Farilda Talamazzi…
E potrei certamente continuare, ma opto per contenermi.
Perché però – immagino pensiate – rievoco queste figure?
Chiarito che tra i paradigmi esistenziali di chi scrive non albergano gli incensati e osannati modelli di riferimento oggi imperanti, cioè i vari Musk, Bezos, Gates e a scendere, mi limiterò a ricordare che nessuna di esse era membro dell’Accademia dei Lincei o della Crusca. Ma nel mentre ammonisco e invito alla cautela prima di derubricarne troppo frettolosamente la cifra intellettiva al rango di insufficiente o di mediocre, fornisco subito la spiegazione. Queste persone, indistintamente, erano in possesso di una qualità, una dote e una nota comune caratteristica che oggidì scarseggia, latita, per non dire che si è fatta rarissima: lo spirito di solidarietà. Per comprendere appieno la salienza di tale requisito è sufficiente ricordare che, in sua assenza, è di colpo inficiato – e in modo decisivo – quel pilastro e snodo teorico ineludibile racchiuso nella formula unità di classe. Aggiungo, con non poca soddisfazione, che in tal modo, esercitando liberamente e unilateralmente la mia volontà, immetto, introduco, faccio entrare nella Storia, come meritano, le persone citate.
In ogni caso, se poi amplio lo spettro dei ricordi sconfinando dal microcosmo umano, sociale, culturale e, consentitemi, architettonico, costituito dalle case popolari di Via XX Settembre, il mio pensiero corre ad altri. Ad Angelo, Angiolino, Marconi, ad esempio, con il quale ho potuto stabilire un reciproco e simmetrico rapporto d’amicizia, stima, affetto, al di là di talune comprensibili e ovvie divergenze e di certe, diciamo, rigidità. Ho ben presente il suo fiero, integro, fermo e intransigente sentimento antifascista.
E ancora, a Volta, più noto come Nino della Prisca, fratello di colui che mi è stato detto essere stato il migliore amico di mio nonno. Di Nino ho nitidissima in mente l’immagine del suo sorriso benevolo, gioviale e conciliatore, il suo sguardo serafico che trasmetteva pura cordialità. Ne rammemoro, inoltre, la prodigiosa fisicità.
«Fa’ tutto quanto in tuo potere per salvare il mio amico…». «Virgilio, sei impazzito? Il signore… Il tuo amico, è quasi alla fine…»; questo, per quel che ricordo, il breve dialogo intercorso tra il sottoscritto e un viceprimario, al tempo, dell’Ospedale Maggiore di Cremona. Non lo vedevo dal tempo delle superiori e il fato fece sì che fosse colui che si occupasse dell’ultimo periodo di vita dell’amico e compagno Luciano Cippelletti, che avevo visitato, per l’ultima volta, quel giorno. Il mio legame con Luciano possiamo dirlo decisamente robusto, anche perché propiziato da una sua confidenza fattami fin da subito: in gioventù, più o meno da poco prima della Liberazione, Cippelletti, assieme ad altri sei o sette suoi coetanei, aveva dato vita a un gruppo anarchico in quel di Casalmaggiore. Tale gruppo operò con qualche risultato nel territorio casalasco anche auspice, se ben ricordo le parole di Luciano, la cifra di audacia di alcuni dei suoi membri. Arrivò persino, e non senza qualche sacrificio, a inviare un compagno, nel settembre del ’45, al Congresso costitutivo della FAI (Federazione Anarchica Italiana) tenutosi a Carrara. Il gruppo si sciolse pochi anni dopo e praticamente tutti confluirono nel PCI nel ’48. Ultima nota: rammento alcune andate, con Luciano, presso la Camera del Lavoro di Casalmaggiore. Lì, al cospetto di un arcinoto Segretario CGIL del tempo, Nardi, assistevo – sedicenne o giù di lì – a confronti stringenti, durante i quali (o forse era solo il prodotto delle mie suggestioni e positive pregiudiziali verso il compagno) parevano riemergere elementi dialettici che non erano alieni o immuni dall’influenza di un remoto passato ideologico che, mai del tutto sopito, probabile abbia accompagnato il nostro fino ai suoi ultimi giorni. Do per certo che i compagni che da alcuni anni si impegnano per ristabilire qualche verità storica in merito alla presenza anarchica nell’intero territorio provinciale (dal 1872 a oggi!) – nel quadro della ricostruzione storica della lotta di classe nella nostra zona – non trascureranno questa significativa, seppur breve, espressione locale.
E finalmente, da ultimo ma non per ultimo quanto a rango, umano oltreché politico, rievoco la figura di una delle più qualificanti e specchiate personalità della sinistra socialcomunista gussolese: Carlo, detto Carlino, Zanitoni (e di suo figlio Noris, del quale mi fregio di essere stato amico). Mi esprimo in questo modo anche perché è lui, Carlo Zanitoni, a incarnare il trait d’union con il motivo per il quale siamo oggi qui convenuti. Non ha dimorato molto, Carlino, dotato com’era, ad assumere il fatto che chi gli stava di fronte, 51 anni fa, ossia il sottoscritto, non era il consueto prodotto di giovanili trasporti e infatuazioni, di romantici confusionismi oppure di spontaneistici afflati adolescenziali – per quanto apprezzabili e generosi – ma, e più semplicemente, un giovane che – tentando di riunire, coniugare e declinare idee, teorie, principî – era in procinto di maturare un congiunto e un complesso ideologico, certo ancora inorganico al tempo, che, per sintetizzare, passa sotto la denominazione di anarchismo; tale insieme lo avrebbe accompagnato durante tutto questo tempo e ancora oggi lo accompagna. Ebbene, è a partire da tale momento e da tale consapevolezza che Carlino, in tutte le occasioni che ci hanno visto assieme, mi ha prodigalmente elargito sempre maggiori e numerosi tasselli – tasselli assai consistenti – atti a comporre con accresciuta definizione e compiutezza, sia sul piano umano sia su quello politico, il ricco mosaico che forma la figura del compagno Carlo Comaschi. Premetto che sono lungi dall’idea di riuscire ad apportare qualche e ulteriore elemento di significato dopo che avete avuto modo di seguire gli interventi degli storici Azzoni e Rosa; quanto segue, perciò, va letto e interpretato sul piano che più gli si confà: quello emozionale. Accennavo ai tasselli e, dunque, mi limiterò a fornirvi solo quelli che de visu ho appreso.

Zanitoni mi ha riferito del Comaschi persona: della sua ampiezza intellettuale, della sua socratica estensione di pensiero e apertura di senso. Mi parlava financo della sua persona fisica, che definiva grande e persino imponente. Suggerisco, al riguardo, di non sottendere la cosa con soverchia leggerezza. Chi, in effetti, avrebbe potuto sopravvivere mesi a una barbara e vile aggressione a base di mazzate e con l’ausilio di attrezzi da lavoro propri di un muratore del tempo (in merito ricordo le parole di un compagno, muratore, che per far intendere a un ignorante come il sottoscritto come e quanto è mutata nel tempo la situazione e le condizioni di lavoro del settore mi diceva: «Vedi, Duilio, erano i tempi in cui occorrevano tre manovali per “servire” un muratore… Nel mentre oggi un manovale “serve” tre muratori!». Questi tempi proponevano performance del genere: il muratore o il capomastro – caso di mio nonno Agostino – riusciva con una mano (!) a spiaccicare su una parete un secchio dal peso oscillante tra i 25 e i 30 chilogrammi per poi incalzare il giovane aiutante con le parole: «Va’… Forza… Dai… Un altro!». Comprensibile pensare che siamo nell’inaudito, ma, credete, pare fosse proprio così!), se sprovvisto di formidabili e indubitabili caratteristiche corporee?

Il Comaschi organizzatore: stretto, per così dire, dallo spirito del tempo, il compagno si muoveva e operava sull’intero territorio provinciale (il compagno Bonini, figura di spicco dell’anarchismo del capoluogo, oppure gli inquirenti che ne studiavano il labiale a oltre 20 metri di distanza su Corso Campi a Cremona mentre si intratteneva con altri, lo attestano) e non solo (pensiamo alle relazioni fattuali con l’Unione Sindacale Italiana, neonata, di Parma), arrivando a costituire e radunare attorno a sé un gruppo anarchico, a Gussola, di qualche consistenza e qualità. Aggiungo, in relazione a quest’ultimo aspetto, che Zanitoni mi ha ribadito in vari contesti e circostanze questa sua personale opinione che tento di riferire per quanto la memoria me lo consente: «Per me Comaschi non ha mai cessato di essere anarchico. Neppure nel suo periodo socialista: neppure quando rimproverava i giovani compagni, tuo nonno incluso, che nel ’21, a suo dire, commettevano l’imperdonabile imprudenza di pregiudicare l’unità della sinistra con il loro frazionismo (Livorno, nascita del PCdI). Insomma, direi che era fisiologicamente, geneticamente anarchico, e ininterrottamente mosso da un grande spirito unitario posto al servizio della classe degli sfruttati». Questo il mio ricordo al riguardo.

Il Comaschi anticlericale: l’ateo, l’agnostico Comaschi (mi spingerei a dire l’antireligioso Comaschi). Il suo era un anticlericalismo aperto, franco, diretto e onesto. Ricordiamo che, al tempo, i massimi esponenti del clero locale non esitavano un istante nel convocare gli insegnanti elementari e, dopo aver goffamente mimato – con l’aiuto di una candela accesa rappresentante il sole e di una biglia di vetro colorato a simulare la Terra – il movimento di rivoluzione della prima attorno alla seconda, ammonivano – con sguardo da psicopatico allucinato – l’intimorito insegnante di turno all’incirca così: «Questa, e solo questa, è la realtà! Guai se prestate orecchi e peggio ancora se propagate altre teorie ché, queste, sono proprie del sovversivismo ateo e socialista!». Insomma, con intensa soddisfazione dei corifei di tolemaici sistemi e alla faccia di astronomi per passatempo del calibro di Copernico o di Galileo, provavano a riportare indietro di qualche secolo l’orologio della storia e della scienza. E ciò accadeva ancora nel primo lustro del secolo scorso! E di fronte a tutto questo, sottolineava Carlino, come reagiva Comaschi? Sembra davvero incredibile ma, davanti a un quadro di primitiva e deplorevole devastazione psichica e culturale, nonché di cupa minaccia, come quello descritto nell’esempio appena addotto, ecco che il compagno conservava serenità, intelligenza e lucidità bastevoli a riprendere e ammonire i compagni che avanzavano proposte di iniziative e gesti che – solo per edulcorare – definiremo improvvidi o maldestri. Pazientemente, spiegava loro che altre erano le strategie e le tattiche da adottare per opporsi alle tenebre religiose e conseguire qualche risultato nella lotta a tutte le posture (e le imposture) clericali e fideistiche.

Il Comaschi pedagogo: Zanitoni si soffermava inoltre volentieri, e frequentemente, sul profilo pedagogico del compagno, sulle tante sere trascorse in scuole eufemisticamente definibili precarie e improvvisate, spesso in vere e proprie stalle (formidabile occasione per i suoi detrattori di evidenziare conformità e vicinanza tra luogo e insegnante, tra animali deiezioni e insopportabili olezzi), dove il compagno si improvvisava docente multidisciplinare. Le materie e le nozioni trasmesse spaziavano dall’italiano alla matematica, dalla storia all’astronomia… Le scolaresche erano anagraficamente variegate, ossia formate da giovani e meno giovani, i quali, dopo estenuanti giornate passate nei campi, in fabbrica o presso un cantiere edile, destinavano le residue energie psicofisiche alla formazione, all’istruzione, all’apprendimento. È facile evincere, dunque, che Comaschi era in possesso di una chiara coscienza in merito all’importanza della cultura (della cultura tout court, senza ulteriori specificazioni, annotazioni, connotazioni, denotazioni, non perciò della cosiddetta cultura popolare, o di quella femminista, o giovanile ecc., ma della cultura e basta). Si noti, di passaggio, che il compagno non era certo sospettabile di gramsciane influenze in materia; e invece, e concludendo, si conferma che era solo dedito, anche su questo vitale terreno d’intervento, all’elevazione delle classi subalterne.

Il Comaschi antifascista: infine, Carlo Zanitoni mi ripeteva, sovente con gli occhi umidi per la commozione, che cosa ha rappresentato il Comaschi alfiere della libertà, il Comaschi antifascista. Con molti anni d’anticipo egli si confermava in modo naturale (in quanto anarchico) il prototipo dell’oppositore antipodico del Reichführerprinzip, che possiamo tradurre con principio gerarchico assoluto, cardine insuperato e asse di sviluppo di tutto l’impianto teorico nazionalsocialista. Un po’ come il compagno Luigi Fabbri, lesse il fenomeno in atto (parlo del Fascismo) come inequivoca controrivoluzione preventiva. In quante occasioni, mi diceva, è stato visto affacciarsi alla finestra del Municipio di Gussola, presso il quale era impiegato e dove sarebbe stato in breve vilmente aggredito, per rivolgere un omaggio, salutare e spronare – con manifesto, palese entusiasmo, agitando il consueto cappello nero a grandi falde che mai lo abbandonava – il drappello di giovani Arditi (tra i quali mio nonno Agostino) che si recavano al di là di quel confine che da decenni chiamiamo argine maestro con l’obiettivo di esercitarsi, attrezzarsi e prepararsi a fronteggiare come si deve le disgraziate bande di quel regime quasi in procinto di insediarsi. Consentitemi una rapida digressione. Mi è occorso di pensare, in questo periodo, a buone e neppure tanto antiche letture relazionate in certa misura con una delle più alte espressioni del pensiero teoretico e scientifico del XX secolo: il Circolo di Vienna. Dico subito che in pressoché tutte ho avuto modo di riscontrare un unanime consenso e giudizio circa i suoi tre numi tutelari: Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein e Albert Einstein. Ebbene, e dunque, per qualche singolare automatismo associativo, in questo tempo m’è spesso venuto spontaneo concludere che, mutatis mutandis (contesto, circostanze, premesse e conclusioni), l’Arditismo (intendiamoci: gli Arditi del Popolo) in questo versante di territorio cremonese abbia visto la sua personificazione, in qualità di numi tutelari, precisamente in Carlo Comaschi a Gussola e nel prof. Ferrari a Casalmaggiore. Sul secondo non mi spingo a pronunciarmi (anche se ho ben vivo e presente il passaggio dedicatogli anni fa dal compianto prof. Lipreri, apparso sulla stampa locale in un pezzo monografico che vedeva per protagonista un nostro compagno casalasco: Enrico Ferlucchini), ma su Comaschi è lecito concludere che, senza tema di smentite, afferisse a quel filone di pensiero (storiografico e non solo) che identifica in una replica militante (e militare) all’insorgere dello squadrismo fascista una seria e percorribile ipotesi alternativa all’ignavia, all’opportunismo, al calcolo politico e ai tentennamenti imperanti al tempo nel seno di larga parte della sinistra storica italiana. Nessuno coltiva dubbi sul fatto che, probabilmente, tale disposizione non ne avrebbe cambiato gli esiti tragici, ma altrettanto probabile e legittimo è ritenere che ne avrebbe certo apportato qualche significativa modifica, sul piano del corso degli eventi. Chissà…
Mi sto però dilungando, nel mentre dovrei avviarmi a concludere; scusandomi, ci provo.
È quantomeno rettilineo e stringente il pensiero comune che vuole che i più di noi – dunque chi ci ha preceduto e i nostri coevi – passi o attraversi questa esperienza di non agevole definizione che noi umani chiamiamo vita, senza lasciarvi nulla, senza depositarvi un segno: nessuna traccia, nessun ricordo.
Ed è esattamente così; non vale la pena di perderci il sonno.
Consoliamoci, invece, al pensiero che, per merito o sorte (non importa), ve ne sono altri che assurgono al rango di una speciale versione umana di quei testi che siamo soliti designare come classici; sapete, mi riferisco a quelle opere (del pensiero, della letteratura, della storiografia, seconde solo ai cosiddetti monumenti letterari) che giacciono sugli scaffali di biblioteche o librerie personali (non v’è differenza), che quando ci approssimiamo paiono bisbigliarci, sussurrarci qualcosa. Questo qualcosa si determina e si costituisce mediante la costante e impellente necessità che paiono manifestare di venire una volta di più approfonditi, ricercati, indagati, investigati… Non vi sarà improbo credermi quando affermo che Carlo Comaschi appartiene a pieno diritto a tale novero.

Se è pur vero che, presso l’Archivio di Stato di Cremona, consultando la categoria Sovversivi, non se ne rinviene il fascicolo che lo riguarda, neppure un rigo che attenga il compagno. Perché? È presto detto. La sua cifra politica e la sua salienza sono di tale fatta che tutto quanto vi si riferisce è depositato presso il Casellario Politico Centrale di Roma. La scheda stessa (ampia e ben fatta) a lui dedicata nel Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani (edito dalla Biblioteca Franco Serantini), probabilmente elaborata dopo aver attinto alla suddetta fonte, sta a testimoniare della parzialità e dei limiti conoscitivi che lo riguardano; attesta, cioè, l’attualissima urgenza di approfondirne l’identikit biografico e storico-politico. Quanto riferito in precedenza, basato sulla testimonianza diretta, seppur orale (questo «seppur» va ben inteso e non mi pare il caso di scomodare la memoria di un intellettuale come Nuto Revelli per considerare come si conviene tale genere storiografico), di Carlo Zanitoni, è solo un esempio, microscopico ma non per questo trascurabile, di quanto resti da scavare per riappropriarsi, nella sua interezza, della statura umana e politica del compagno.

Se è pur vero che chi tra noi, da alcuni anni, si prodiga sul terreno della ricerca storica finalizzata a ricostruire presenza, senso e peso dell’Anarchismo in Cremona e provincia ha preso contatti con diretti discendenti di un’insigne figura della sinistra storica nella nostra comunità (ne è stato pure Primo Cittadino) non ha ricevuto alcuna collaborazione (!). Non sono state, cioè, aperte le porte all’indagine tesa all’obiettivo di ripristinare un minimo di aderenza ai fatti, al succedersi degli eventi, al vero storico. È stata addirittura respinta e negata un’evidenza incontestabile: l’appartenenza dell’avo in oggetto al gruppo anarchico fondato da Comaschi a Gussola. Evidenza altresì confermata, comprovata, documentata, ufficializzata e storicizzata (sic) dal fascicolo (categoria Sovversivi) che riguarda l’insigne figura in questione. Sulla prima di copertina di tale fascicolo compare, inesorabile e inequivoca, la dicitura Anarchico. Che dire? Timori (quali?), vergogna, imbarazzo, disagio? Chi può saperlo? La vicenda, mi sia consentito, presenta numerose e singolari analogie con quella pertinente la ricerca sul compagno Annibale Bettini di Casalmaggiore, pittore le opere del quale (anche di tema religioso e/o iconografico) abbiamo tutti incrociato percorrendo alcune delle direttrici principali di quel Comune, che ha visto alcuni dei suoi discendenti urbanamente declinare qualsivoglia forma di collaborazione al riguardo, adducendo ragioni come «in famiglia non era molto considerato» oppure «sa, era un genitore assolutamente inadempiente» et similia. Tant’è!

Se è pur vero che, a oggi, l’Archivio Parrocchiale di Gussola non ci ha permesso di accedere e di prendere visione dei noti (una voce ancestrale mi suggerisce: «dei famigerati») Diari di Don Lupi. Don Lupi era il famoso (la stessa voce di cui sopra mi sussurra «il famigerato») parroco gussolese del periodo. Nessuno cada nell’illusione che discende dal ricorso al corsivo per indicare il titolo appena citato. La diaristica, la memorialistica e altri dignitosissimi generi letterari c’entrano poco o nulla. Idem per la necessità di scomodare categorie (nella più nobile delle accezioni, quella aristotelica) quali esegesi, filologia testuale, ecdotica, e neppure di evocare quella della più modesta e banale acribia; molto più probabile che, prendendone visione, ci ritroveremmo al cospetto di fanatico e medievale ciarpame letterario ove imperano stile, forma e contenuti di infimo rango (possibile persino che il più innocuo sentimento di rispetto per morfologia, sintassi e grammatica venga in essi disatteso e sistematicamente, disinvoltamente ignorato).
Cari compagni e amici, abbiate pazienza, ma mi pare di percepire il senso di quella vocina che, subdolamente, pare insinuarsi tra le vostre sinapsi per sussurrarvi: «Perbacco! Se faccio mio questo punto di vista e tali toni arroganti e supponenti, questi altezzosi e aristocratici timbri formali, non sarà che mi sto convertendo in un razzista, sia pure sul mero ed esclusivo piano intellettuale ed etico?». Voglio tranquillizzarvi: non prestate attenzione a quella vocina, è un inganno.
Noi non inceneriremmo i Diari di Don Lupi: sono i fascisti e i nazisti gli “eletti” preposti al rogo di libri, papiri, incunaboli, quattrocentine, non noi! Noi ci limiteremmo a relegarli nel museo della storia laddove, chi verrà dopo di noi, pargoli alla mano, spiegherà loro che ancora all’inizio della terza decade del XXI secolo si cianciava di inaudite iniquità sociali, di frontiere, di identità nazionali, di patrie, di appartenenze etnico-religiose, di diritti di donne, anziani, disabili, di omofobia e persino di razze (bellamente ignorando, in tal modo, l’esistenza del più lungo in assoluto studio scientifico della storia – circa sessant’anni – ossia uno studio di genetica i cui risultati sono stati resi noti negli anni Novanta, risultati che hanno confermato un’adamantina, ineluttabile, perentoria verità: non esistono le razze, nessuna razza, bensì una sola razza o meglio, una sola specie, quella umana, che da circa 300˙000 anni prende il nome di Homo sapiens sapiens)! Ma per comprendere tale ovvietà è indispensabile trovarsi in possesso di un minimo di funzione cognitiva e di dotazione o corredo neuronale e invece pare proprio che, perlomeno in questa parte del “pensiero” (posto che ve ne sia uno) di destra, tali requisiti difettino assai!
E, se non si comprende, meglio distruggere o bruciare, appunto.
Alla memoria, in proposito, tornano le parole del fondatore della moderna antropologia culturale allorquando, riferendosi a quel precedente olocausto prodottosi qualche secolo addietro in occasione della “scoperta del Nuovo Mondo” ebbe a scrivere, all’incirca: «Fu un incontro e un’occasione unica e irripetibile, per noi europei. L’occasione per un incontro e un abbraccio formidabile, ricco e foriero di chissà quali e quanti straordinari sviluppi. Occasione tragicamente persa. Siccome non si capiva, si preferì distruggere».
Semplice, no?
Del resto, cosa attendersi da chi, come massima aspirazione e ambizione esistenziale, coltiva quella di navigare nell’oro, deliziarsi con il migliore dei cibi, collezionare interminabili schiere di soubrette, comandare, opprimere, tiranneggiare i più deboli tra i propri simili, prosperare sulle altrui rovine ecc.? E dunque, e per tornare al nostro curiale genio locale del tempo, cosa attendersi da chi appellava di uomo della Provvidenza il capo del Fascismo?
E una parola, prima di chiudere, voglio dedicarla ai due “eroi”, cioè Surgon e Grigon (al secolo Brunazzi e Corradi) che hanno deciso di eternarsi mediante l’assassinio del compagno. Chi domina i dialetti della nostra zona e ne frequenta lo spessore semantico può ben suggerire, a partire dai loro scutmai, la ragione per la quale, diciamo, non sono assurti a membri, e neppure a candidati, di un Institute for Advanced Study, o di equivalente rango, tra i cosiddetti pensatoi mondiali. Come, dico io, avrebbe potuto essere diversamente?
Ma comunque, e concludendo il punto, se tutto ciò va, al minimo, tenuto in conto (miseria morale inclusa), perché ambire a prendere visione di tali documenti così gelosamente custoditi e protetti dall’Archivio Parrocchiale di Gussola? Facile giustificare l’aspirazione: siamo in possesso di informazioni che comproverebbero che in questi Diari si rinvengono numerosi rimandi al compagno Comaschi e che questi sarebbe in essi trattato più o meno alla stregua di una potenza demoniaca, di un’entità luciferina, di un polifonico abisso del Male. Più che bastevole, il tutto, per incuriosirci, motivarci e non desistere!

Se è pur vero che quanti tra noi scommetterebbero sul fatto che nella consistente comunità dei professionisti della salute, medici, nella fattispecie, si annidò un fenomeno di confusionismo deontologico senza pari come quello di cui dirò ora? Certo siamo largamente autorizzati a così definirlo, ossia sensibilmente confuso, se ha scambiato il giuramento di Ippocrate con il giuramento di ipocrita!
Mi spiego subito, e meglio.
Ci siamo recati, in almeno due occasioni, presso la clinica San Camillo, situata in Via Mantova, a Cremona. Tali visite vanno affiancate ad alcuni abboccamenti telefonici.
Obiettivo: accedere all’archivio dell’ospedale in oggetto per visionare ed eventualmente fotocopiare il referto di morte di Carlo Comaschi.
Ci siamo rivelati perciò pronti e ligi (noi che per vocazione e attitudine manifestiamo alcuni deficit e reticenze in merito) nel seguire scrupolosamente tutte le regole, i protocolli e i disciplinari del caso previsti, pur di raggiungere lo scopo. Accondiscendenti e proni, dunque, a ossequiare la più tortuosa e ottusa delle procedure, ecco che ci siamo illusi! A un passo (fisicamente inteso) dall’accesso all’archivio, giunge dall’alto, salvifico e ieratico (in omaggio alla stessa denominazione dell’istituto ospedaliero in cui ci troviamo), un formidabile e perentorio diniego!
Motivazione: nessuna (fatto salvo il libero esercizio della volontà del decisore)!
Era nostro intendimento, oltre che conoscere il fantasioso e surreale dispositivo del referto di morte del compagno (secondo la testimonianza del compianto Franco Ramella, suo diretto discendente nonché apprezzata e stimata persona nel nostro paese, in esso si blatera di «incidente» e persino di «incidente stradale»!), venire in possesso anche del nome di quel cuor di leone di medico (lo stesso confuso cui si accennava all’inizio) che lo ha stilato, redatto e sottoscritto. La nostra ingenua, candida, generosa ed edificante sete di conoscenza è stata però fin qui frustrata…

Alla luce di tutto ciò, quasi temo abbiate a interpretare come offesa alla vostra intelligenza porre l’interrogazione che segue: «Ritenete o no che gli elementi fin qui squadernati attestino e giustifichino l’esistenza di materiale e ragioni per approfondire la conoscenza di Carlo Comaschi uomo, politico e combattente per la Libertà?».

So che ora segue un certamente ottimo momento conviviale e, nel mentre mi auguro ne traggano degni risultati e benefici e le vostre papille gustative e i vostri apparati digerenti, mi è venuto di pensare: «Perché non cimentarsi nell’impresa di provare ad allargare lo spettro dei benefici ai vostri spiriti e alle vostre menti?».
E allora, a tavola, approfittatene per conoscervi di più e meglio, per stabilire ponti dialettici, emotivi e di relazione, per irrobustire le vostre relazioni, per allacciarne e concretarne di nuove, per rimuginare su quanto avete fin qui ascoltato e, se possibile, fare tutto questo collettivamente.
Converrete, credo, che la realtà quotidiana che viviamo ci affligge, ci angustia, ci rattrista e ci deprime.
Barbaro e micidiale azzeramento di nozioni come Giustizia Sociale, conflitti regionali e vere e proprie guerre, rigurgiti nazionalistici e identitaristici, virus inediti e sconosciuti, tragedie ambientali sempre più frequenti e intense, nuove tecnologiche e digitali che non comprendiamo e che ci inquietano… Insomma, tutto pare congiuri alla formazione di un quadro generale che, sommato alle tradizionali problematiche economiche e materiali che ben conosciamo e sopportiamo, rende quasi intollerabile il vivere stesso.
Che ne dite?
Non pare anche a voi che sia proprio giunto il momento per effettuare un significativo salto di qualità sul piano delle attese e delle risposte?
Non più, dunque, limitarci a coltivare l’idea di “un altro mondo è possibile”, bensì adottare quella di “un altro mondo è necessario”!
Per dare l’assalto a questo mondo al fine di realizzarne un altro sono però imprescindibili un congruo numero di presupposti; e dato che la Rivoluzione Sociale non è precisamente dietro l’angolo, perché non provare a iniziare da ciò che ci è più prossimo?
Un paio di esempi ed esortazioni mi forniranno anche l’occasione per porre fine al messaggio che vi dirigo.
Primo.
Perché non chiedersi: «Io, personalmente, cosa posso fare e come posso contribuire all’azione intrapresa già da alcuni anni in quel di Casalmaggiore dagli organizzatori dell’iniziativa alla quale oggi ho presenziato, ossia il Circolo Libertario Casalasco Eugenio Defendi, che li vede impegnati a ripristinare una via, un largo, una piazza… a Francisco Ferrer y Guardia, il pedagogo anarchico spagnolo che il 13 ottobre 1909 fu ucciso, mediante fucilazione, dalla reazione monarchica e dall’oscurantismo religioso?». Tale via esisteva, a Casalmaggiore, quale risultato della sollevazione e dell’indignazione popolare all’indomani dell’esecuzione del compagno. Insediatosi, il fascismo la soppresse.
Secondo.
Interrogarsi ancora così: «Come operare (soprattutto se gussolese, come me) e sostenere la battaglia laica e di civiltà avviata dal medesimo Circolo affinché la mia Amministrazione, il mio Comune, la massima istituzione del governo locale… recepisca e faccia propria la proposta di onorare la memoria di un illustre concittadino quale è stato Carlo Comaschi, mediante l’installazione di una targa che lo ricordi (a costo zero per la stessa Amministrazione), come si conviene, nel centesimo anniversario del suo barbaro assassinio e della sua morte?».

E con queste due sollecitazioni, che mi auguro non cadano nel vuoto o peggio, vengano del tutto ignorate, assieme al ringraziamento per la pazienza accordatami, ricevete il mio caloroso saluto secondo le modalità in uso ai compagni di qua, i compagni lusitani.
Saúde e Anarquia!

Virgilio Caletti

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