La “primavera araba”: riconfigurazione della mappa del Nord Africa e del Medio Oriente

África del norte | la izquierda | opinión / análisis Friday August 23, 2013 10:26 by Felipe Ramírez

Dal 2011  il Nord Africa ed il Medio Oriente sono sconvolti da un’ondata di proteste e di lotte democratiche guidate da ampi strati della popolazione, che hanno scosso le fondamenta di molti governi che sembravano inamovibili da anni. E ‘chiaro che ciò che l’Occidente ha chiamato “primavera araba” ha trasformato e continua a trasformare lo scenario politico della regione, da quel pomeriggio, quando Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante tunisino si diede fuoco nella città di Sidi Bouzid per protesta contro la polizia che gli aveva confiscato i suoi beni. La sinistra, purtroppo, forte solo nelle aree estreme della regione -in Kurdistan e Tunisia- vive momenti decisivi in Siria, Tunisia e in Egitto, a fronte dei rinnovati sforzi dell’imperialismo per riprendere il controllo della situazione e di imporre la propria agenda.
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Guerrigliere kurde delle YPG. La donna svolge un ruolo fondamentale nella rivoluzione iniziata dalla sinistra in Kurdistán.

L’aumento di proteste in diversi paesi della regione governati all’epoca soprattutto da vari governi autoritari, aveva portato molti intellettuali e analisti a livello internazionale a parlare di rivoluzioni sociali in corso nella zona. La caduta di governanti come Ben Ali, Muammar Gheddafi, Hosni Mubarak o Ali Saleh in Yemen, così come le proteste in Bahrein, Algeria, Marocco e Turchia davano forte l’immagine di popoli di quella zona del mondo che si muovevano verso una democrazia di tipo occidentale, lasciandosi alle spalle le dittature del passato ed i regimi autoritari che opprimevano la popolazione. Tuttavia, la realtà si è rivelata molto più complessa di quella che ci appariva a prima vista e la natura rivoluzionaria delle proteste è apparsa più che discutibile, non solo a causa delle interferenze internazionali nei singoli conflitti nonchè della regressione in diversi paesi a situazioni di autoritarismo, ma anche  per la mancata trasformazione dei sistemi economici locali dopo le rivolte[1], come è successo nel caso del potente ruolo economico di istituzioni come l’esercito egiziano che non è stato scalfito in alcun modo.

La verità è che nella regione vi è una lotta violenta tra varie forze:

Tra queste vi sono le forze sociali rappresentate dalla sinistra -soprattutto settori operai organizzati e settori urbani con il supporto relativo di alcuni ceti medi; ci sono gli interessi imperalisti degli USA -difesi direttamente tramite la NATO, ma col coinvolgimento di due potenze regionali rivali come la Turchia e l’Arabia Saudita; c’è l'”asse sciita” -Iran, Hezbollah e il governo di Bashar Al-Assad-; ci sono i partiti islamici moderati come Ennahda e la Fratellanza Musulmana, in linea con l’AKP turco; ci sono le organizzazioni islamiste dei  sunniti radicali, legati soprattutto ad al-Qaeda. Forze che sono nel bel mezzo di uno scontro fratricida tra popoli, fra tribù e minoranze religiose di cui si giova solo l’imperialismo che sta gradualmente riprendendo l’iniziativa politica dopo le sue sconfitte in Afghanistan ed Irak [2]

Tunisia, l’inizio delle lotte democratiche e l’irruzione imperialista in Libia

Dall’inizio delle proteste in Tunisia, paese in cui la sinistra può contare su una forza relativa come in Kurdistan, è possibile caratterizzare le lotte sviluppatesi come democratiche, dato che si chiedeva più spazio per la partecipazione politica, libertà fondamentali come la libertà di espressione, il rispetto dei diritti umani e di garantire i diritti delle donne, insieme ad altre richieste. Indubbiamente, in Tunisia come in altri paesi sono stati i lavoratori e la classe media urbana la spina dorsale delle proteste, aggiungendosi subito contadini e braccianti, dove hanno storicamente hanno il loro sostegno le varie organizzazioni islamiche.

Tuttavia, nel momento in cui le manifestazioni hanno cominciato a scoppiare in nuovi paesi -Egitto, Bahrein, Yemen, Siria, Libia, Giordania, Algeria, Marocco- l’imperialismo cominciava a intravvedere con maggiore interesse le potenzialità per un intervento, soprattutto perché  i suoi due rappresentanti principali, Turchia e Arabia Saudita, si ergevano come bastioni di stabilità, fonte di risorse monetarie e con ampia legittimazione nella regione. La prima, grazie alla sua forte presa di posizione contro l’attacco israeliano alla flottiglia a sostegno di Gaza [3] -senza dimenticare che Erdogan è stato il primo leader ad andare in Tunisia dopo la caduta di Ben Ali- e l’Arabia Saudita, grazie al sostegno a vari partiti islamici delle monarchie del Golfo, attraverso i massici introiti da petrolio, che la rendono immune alle  pressioni da parte degli Stati Uniti  per riforme del suo brutale sistema interno, che discrimina la minoranza sciita ed è uno dei più rigidi nei confronti delle donne. Le circostanze stavano aprendo la possibilità di sostenere le proteste come scelta utile a vantaggio dei propri interessi particolari.

A questo punto, la NATO ha usato le differenze tribali in Libia -uno dei paesi più prosperi della regione, con infrastrutture, un invidiabile sistema scolastico e sanitario- e le rivalità regionali tra Tripolitania e Cirenaica, per generare un conflitto interno che permettesse un intervento militare [4]. Non importava che Gheddafi -vecchio emblema dei paesi non allineati- avesse intrapreso alcune riforme secondo i canoni neoliberisti e che si fosse proposto come un alleato nella lotta contro il terrorismo islamico dopo l’11 settembre 2001; per gli Stati Uniti e la NATO si presentava una preziosa occasione per togliere di mezzo un vecchio nemico e per assicurarsi un accesso sicuro al petrolio nel paese.

Egitto: Alleanza tra  islamismo ed imperialismo

Allo stesso modo, Mubarak è stato uno dei principali alleati degli Stati Uniti e di Israele nella regione dopo il trattato di pace firmato nel marzo 1979 tra Anwar Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin, con l’esercito egiziano -in cui si sente ancora l’influenza di settori panarabi di tendenza nasseriana- che è tra quelli al mondo che ricevono più assistenza militare dagli Stati Uniti, al pari solo di Israele e Colombia. Questo non ha impedito che l’amministrazione Bush avviasse a partire dal 2007 contatti con i Fratelli Musulmani per preparare il terreno all’eventuale necessità di un cambio di amministrazione nel paese più popoloso del mondo arabo. A quel tempo, secondo il quotidiano “The World Street Journal”, il governo degli Stati Uniti si sarebbe incontrato con i gruppi vicini alla Fratellanza in Egitto, Siria, Giordania e Iraq, indicando loro il governo iraniano e siriano insieme ad Hezbollah ed Hamas come una “minaccia per la stabilità della regione “.

L’aumento delle lotte sindacali a partire dal 2008 in Egitto e il crescente malcontento della classe media urbana impoverita hanno creato uno scenario favorevole alla caduta della dittatura -caratterizzatasi per una dura repressione delle lotte della classe operaia-  e favorevole all’arrivo al governo dei Fratelli Musulmani dopo elezioni controverse, in cui la sinistra ed i settori progressisti legati all’Occidente sono giunti  al terzo posto, alle spalle di un ex ministro di Mubarak. Il nuovo governo, alleato con i partiti salafiti, si è schierato apertamente con Hamas [6] dando sostegno alla popolazione assediata della Striscia di Gaza in un momento in cui gli Stati Uniti stavano cercando intensamente un processo di pace tra Fatah e Israele, come un modo per rilegittimarsi nella regione. L’Egitto stava diventando una spina nel fianco per gli interessi americani.

Ma la crisi regionale si stava espandendo rapidamente. Le proteste sono state utilizzate dall’Arabia Saudita per rafforzare il suo ruolo regionale attraverso una serie di manovre politiche e militari. In primo luogo, appoggiandosi al governo del Qatar, ha rafforzato la sua egemonia nel “Consiglio di cooperazione del Golfo”, poi ha dato il suo supporto ai settori islamisti sunniti nelle proteste in Siria, in Egitto e in altri paesi. Ha anche cercato di tenere a bada la maggioranza sciita in Yemen e Bahrein  -paesi governati da monarchie sunnite [7]- tramite interventi militari successivi che hanno messo fine alle proteste che cercavano di democratizzare questi paesi – tanto che il primo si sta trasformando gradualmente in  una nuova roccaforte di Al-Qaeda- ed accusando l’Iran di stare dietro le rivolte sciite. In questo modo ha cercato di isolare i suoi concorrenti nel mondo musulmano, la Turchia e l’Iran -entrambi etnicamente non arabi- ed ha stabilizzato la sua nuova posizione di  potenza intermedia nel contesto mondiale. Ma i suoi rivali, soprattutto la Turchia, hanno già dimostrato di avere intenzioni simili.

In Turchia, il governo islamico del Partito della Giustizia e del Progresso-AKP, di tendenza conservatrice ed islamico moderato- al potere dal 2002, ha realizzato una serie di riforme in questo paese tradizionalmente laico con un esercito che per decenni era stato il difensore della separazione tra stato e religione, ma soprattutto dedito al complotto. Dopo aver cercato per anni di far entrare la Turchia nell’Unione Europea, senza grande entusiasmo da parte occidentale -unitamente al ruolo subordinato all’interno della NATO- il governo turco ha preferito dirigere la sua attenzione verso il Medio Oriente. L’offensiva a sostegno di Hamas e il suo attivo sostegno ai ribelli in Tunisia ed al governo di Ennhada hanno permesso alla Turchia di porsi come nuovo protagonista nella regione, nonostante la diffidenza araba verso gli eredi dell’autoritarismo ottomano. Questo, insieme con la sua capacità di superare positivamente la crisi economica, ha consentito all’AKP di diventare un modello politico musulmano simile alla Democrazia Cristiana occidentale.

Tuttavia, il suo crescente coinvolgimento nella crisi siriana -che l’ha portata a scontrarsi con l’asse sciita a causa del  sostegno attivo per l’insurrezione sunnita [8]- così come l’emergere di proteste nazionali contro l’islamizzazione progressiva del paese e contro l’autoritarismo crescente governo, insieme  ai negoziati con la guerriglia del PKK curdo -l’altra grande forza a sinistra nella regione insieme a quella tunisina- dopo quasi 30 anni di guerra civile, hanno minato la forza con cui la Turchia teneva la sua posizione regionale. Ma potrebbe essere il primo elemento quello che potrebbe trascinare la Turchia in un conflitto settaro come quello che insanguina l’Iraq da anni.

Questo perché poco a poco la crisi in Siria è diventata il principale teatro delle operazioni nella regione, finendo col coinvolgere al suo interno le diverse forze politiche regionali in conflitto.

Il governo autoritario del partito Baath, al potere dal ’60 e che ha il volto di Bashar Al-Assad -membro della minoranza sciita “alawita” ed alleato di altre minoranze religiose- si è caratterizzato come nel caso della Libia per il mantenimento di un tenore di vita superiore alla media regionale. Tuttavia, ciò non ha impedito che dal 2011 diverse forze cominciassero a lottare per le riforme democratiche, passando rapidamente a richieste volte a integrare nella struttura di potere la maggioranza sunnita, influenzata dai liberali in esilio in Occidente.

Sebbene la repressione sia stata come sua abitudine la prima reazione del regime, nel mese di agosto dello stesso anno il governo aveva annunciato una serie di riforme radicali che sarebbero stato attuate nel medio termine [9], tra cui un sistema pluripartitico, le elezioni parlamentari e la creazione di una nuova costituzione -adottata nel febbraio 2012 compresa l’abrogazione della disposizione che definiva il partito Baath come “partito guida della società e dello Stato” -. Nonostante ciò,  l’opposizione riunita nel Consiglio Nazionale Siriano, che riunisce le forze di opposizione più liberali e le forze radicali islamiche, decise di passare ad un confronto militare [10] con il governo, contando sul sostegno della Turchia, del Qatar e dell’Arabia Saudita ed in modo velato anche della NATO e degli Stati Uniti, senza dimenticare le forze di opposizione dell'”Esercito Libero di Siria” di stanza in Giordania. Nonostante i servizi di intelligence occidentali e la stampa avessero dato per sconfitto il governo in numerose occasioni, il forte sostegno della Russia -a differenza del suo atteggiamento morbido nel caso della crisi in Libia- e l’aumento degli aiuti militari dall’Iran e soprattutto del partito-milizia Hezbollah hanno permesso al governo di riconquistare l’iniziativa politica e militare. Lentamente il governo ha recuperato territori contro un’opposizione che ogni giorno sembra meno democratica e meno unita, e sempre più dominata da organizzazioni salafite e perfino da membri di Al-Qaeda.

Ma il governo -col sostegno sciita- e l’ELS -con il sostegno alla monarchie del Golfo e della NATO-  non sono le uniche forze opposte nella crisi siriana. Accanto a questi contendenti si è affermata in modo potente la sinistra curda rappresentata dal Partito di Unione Democratica (PYD) e dalla organizzazione sorella del PKK.

La crisi in Siria e l’emergere della sinistra curda

Attualmente è possibile dire che l’imperialismo nella regione lotta instancabilmente per reinsediarsi come attore  importante, difendendo i suoi interessi attraverso vari alleati che vanno dai governi regionali a forze politiche “usa e getta” come i Fratelli Musulmani o il radicalismo salafita, legato ad Al-Qaeda -con il quale anche se è in “guerra” dal 2001 ha mantenuto l’alleanza durante la guerra in Afghanistan contro i sovietici.

In questa offensiva l’asse sciita ha cercato di reagire ricostruendo le sue alleanze regionali -soprattutto guardando alla Russia- rafforzando il governo siriano con il sostegno militare soprattutto da parte di Hezbollah e dell’Iran di fronte alla recrudescenza degli attacchi, sottraendo appoggio interno all’opposizione attraverso la predisposizione di riforme politiche e la tutela delle minoranze e dei vari settori sociali a fronte della violenza settaria dei gruppi salafiti.

In questo scenario i curdi, che costituiscono circa il 10% della popolazione del paese, hanno lanciato un processo rivoluzionario, che non si è scontrato direttamente con il governo, ma che gli ha permesso di generare un governo autonomo nel nord e nel nord-est del paese [11], comprese zone di confine con l’ Iraq e la Turchia, e i pozzi di petrolio nella zona di Hasakah. Ma per avere un’idea di ciò che sta accadendo in Siria per il popolo curdo occorre fare un po ‘di storia.

Il popolo kurdo è diviso tra gli stati di Turchia, Iran, Iraq, Armenia e la Siria, circa 40 milioni di persone, che sono considerate cittadini di seconda classe in tutti questi paesi, ad eccezione dell’Iraq, dove dopo l’invasione degli Stati Uniti si è formato uno Stato autonomo nel nord, sotto la guida dei due partiti conservatori: l’Unione patriottica del Kurdistan del presidente iracheno Jalal Talabani, ed il Partito democratico del Kurdistan di Masud Barzani, capo del governo regionale, con il sostegno attivo della NATO [12].

Tuttavia, a differenza della situazione in Iraq, dove vivono tra i 4 ed i 6 milioni di curdi, i loro fratelli in Turchia- circa 15 milioni di persone- non hanno alcun diritto o riconoscimento anche se quel paese è membro della NATO e ha cercato per anni di entrare nell’Unione Europea. Al contrario, i partiti politici kurdi sono stati messi fuori legge -come è successo al Partito della Società Democratica (DTP) nel 2009, partito che aveva avuto numerosi sindaci e parlamentari, e la cui messa fuori legge ha condotto all’arresto di 3000 militanti [13] – o sono stati soppressi, come accade oggi con il partito della Democrazia e della Pace (BDP) [14] [15], che ha anche una presenza in parlamento e nei consigli comunali.

Tali attacchi sono effettuati con il pretesto della “lotta al terrorismo”, che è l’accusa che da sempre lo Stato turco, gli Stati Uniti e l’Unione europea rivolgono al più forte partito politico in Turchia: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

Questa organizzazione è nata nel 1978 in Turchia per lottare per l’indipendenza del popolo curdo ed è guidata da Abdullah Öcalan, detto Apo anche dai suoi seguaci – attualmente detenuto in isolamento a vita sull’isola turca di Imrali- che diede inizio nel 1984 alla lotta armata; ha i suoi principali campi di guerriglia nelle montagne Qandil, nel nord dell’Iraq, e le loro basi erano operative fino a pochi mesi nel sud della Turchia, dove vive la maggioranza della popolazione del paese.

Inoltre il PKK dispone di due partiti fratelli in Siria- il Partito dell’Unione Democratica  (PYD), le cui milizie armate sono denominate Unità di Difesa Popolare (YPG) – ed in Iran -il Partito “Vita libera del Kurdistan” (PJAK) – ed un terzo in Iraq, chiamato “Partito democratico del Kurdistan” (KDSP), il quale attende che il governo Barzani ne autorizzi il funzionamento legale, già  negato in due occasioni [16].

L’orientamento politico del PKK è cambiato dal marxismo-leninismo che aveva adottato al momento della sua fondazione, fino ad avvicinarsi a posizioni libertarie dal 2005, quando Apo ha presentato l’orientamento strategico del “confederalismo democratico” [17], basato tra l’altro su posizioni di Murray Bookchin.

Attualmente ci sono negoziati di pace con il governo turco, che prevedono il ritiro progressivo di guerriglieri nel nord Irak [18], che insieme ad una dichiarazione di cessate il fuoco con il governo dell’Iran, ha permesso ad alcuni dei suoi combattenti di trasferirsi nella Siria settentrionale a sostegno di forze del PYD [19].

Dall’inizio delle proteste contro il regime di Bashar al-Assad, i curdi hanno progressivamente preso il sopravvento nei loro territori con alcuni scontri limitati con l’esercito, che non sono mai sfociati però in una situazione di scontro diretto tra le milizie curde e l’esercito del regime. Questo ha creato più di una critica da parte delle forze politiche riunite nel Consiglio Nazionale Siriano [20], riconosciuto da molti paesi come rappresentante della Siria verso l’estero.

Nonostante l’attuale divisione delle forze politiche curde siriane in due assi, uno radunato intorno al PYD, il principale partito del paese, e l’altro raggruppato nel Consiglio nazionale curdo (CNK), che riunisce 15 piccoli partiti sostenuti dal governo autonomo in Irak, le milizie di entrambi i settori hanno lavorato insieme nel corso del tempo, ma sempre con una maggioranza delle forze di sinistra.

Tuttavia, il governo di Bashar Al-Assad non è stato sconfitto, come era successo con Muammar Gheddafi. Al contrario, con il sostegno dei suoi alleati e grazie ai settori jihadisti che stanno egemonizzando l’opposizione, il governo sta riguadagnando posizioni e l’ELS sta perdendo forza a causa dei conflitti interni, consentendo alle forze armate di recuperare territori. In questo scenario sono state le forze jihadiste -tanto Al-Nusra quanto al-EIIK- che hanno  fortemente attaccato i curdi accusandoli di sostenere il governo e di opporsi all’imposizione della sharia. Centinaia di uccisi [21] e rapimenti di migliaia di civili curdi e assiri cristiani sono stati segnalati mentre decine di migliaia di civili sono fuggiti in  Irak [22] a causa della violenza settaria scatenata nel paese.

Man mano che la violenza jihadista si generalizzava sono giunti anche momenti di collaborazione tra le milizie curde e le truppe governative, come nel caso dell’evacuazione governativa della base aerea di Menagh circondata dalle forze islamiste [23], o nel caso  di cooperazione manifesta tra lo Stato Turco ed i salafiti negli attacchi nella zona di  Sere Kaniye (Ras Al-Ayn in arabo). Attualmente le forze islamiste sono sotto pressione da parte delle truppe governative, hanno cercato di pulire le zone curde intorno Efrin e ai valichi di frontiera in Turchia per assicurarsi le loro linee di rifornimento e il flusso di rinforzi e supporti, mentre il governo si è impegnato ad andare avanti lentamente e consolidare le loro posizioni grazie al sostegno di libanesi e iraniani, mentre i curdi  cercano di resistere nelle loro posizioni sia nel Nord che a Nord-Est.

Sia il futuro dell’autonomia curda in Siria come il futuro del governo del Partito Baath si giocano nella lotta contro le forze islamiste che si sono trincerate nella regione centrale, sostenute in maniera più o meno aperta dalle monarchie del Golfo Persico e da paesi della NATO. Ecco perché suona strano la notizia recentemente diffusa da parte dell’opposizione relativa ad un presunto attacco chimico del governo nelle vicinanze di Damasco: il governo, contro ogni previsione, sta lentamente vincendo la guerra sia sul campo -recuperando città come Qamisli o intorno a Homs- sia guadagnando in sostegno popolare, pari al 70%, come  è emerso da fonti NATO [24]. Anche pochi giorni fa, è stato permesso l’ingresso di osservatori delle Nazioni Unite proprio per indagare sulle accuse di uso di armi chimiche, dato che le notizie diffuse risultano sospette.

Ma nonostante tutto questo, è impossibile prevedere l’esito della guerra civile. Né il governo, con il sostegno dell’asse sciita, nè l’opposizione jihadista -sempre più forte man mano che riprende il conflitto settario in Libano e in Iraq- nè i curdi -del CNK o del PYD- hanno vinto la partita e sembra che la NATO e l’Occidente siano sempre in cerca di un pretesto per intervenire come han fatto in Libia.

A livello regionale, d’altra parte, sembra che il colpo di stato militare in Egitto e il ritorno di un regime dittatoriale -che intanto ha passato  Mubarak agli arresti domiciliari -segni una svolta nella strategia imperialista, ed è un chiaro regresso per le lotte democratiche dei popoli della regione. Contro l’opinione generale a sinistra, la nuova interferenza militare nel paese più popoloso del mondo arabo non solo scaccia i “Fratelli Musulmani” -che hanno cercato di accreditarsi come una similitudine islamica delle democrazie cristiane occidentali, socialmente conservatori ed economicamente vicino alle posizioni degli organismi internazionali- ma con uguale forza spegne quel processo di rafforzamento delle organizzazioni di sinistra nel paese, i cui partiti, in gran parte sostenitori del colpo di stato, non finiranno di vedere [25]. Ricordiamo che dopo la caduta di Mubarak e l’instaurazione di un regime militare temporaneo la repressione si è concentrata nella smobilitazione degli scioperi e delle manifestazioni dei lavoratori egiziani.

D’altra parte gli interventi di truppe saudite nello Yemen ed in Bahrein -passate inosservate a livello internazionale- hanno tentato di soffocare le proteste dei gruppi sciiti locali che chiedevano più democrazia, ma nel caso del Bahrein le masse stanno lottando per recuperare gradualmente terreno. In Libia, intanto, resta il caos interno, mentre si rincorrono voci secessioniste a est, nonostante le dichiarazioni dei leader del vecchio regime di Gheddafi che affermano di avere una certa presenza e sostegno popolare che, eventualmente, consentirebbe loro di riprendere l’iniziativa politica, anche se una nuova operazione militare NATO appare il pericolo più importante in un’offensiva contro i gruppi islamici che si sono stabiliti nel paese libico.

In questo momento la maggior parte delle potenzialità di avanzamento delle lotte democratiche nella regione si gioca nelle terre di Siria, Tunisia ed Egitto. La sconfitta del governo di Bashar Al-Assad da parte delle forze alleate della NATO e degli estremisti islamici di Al-Qaeda -e quindi anche della sinistra raccolta attorno al PKK curdo- significherebbe la sconfitta non solo per l’asse sciita, ma anche il consolidamento del corridoio imperialista che dalla Turchia, attraversando la Siria e l’Iraq, porta al Golfo Persico, garantendo il controllo dei pozzi di petrolio e l’isolamento finale dell’Iran. Il consolidamento di una dittatura militare reazionaria in Egitto prevede la costruzione di un muro autoritario simile a quello generato  da Mubarak contro le ansie democratiche  e socialiste sollevate dalle masse di ceti medi e lavoratori egiziani impoveriti, che oggi lottano, d’istinto, disorganizzati e talvolta in modo contraddittorio, per realizzare progressi concreti. Una sconfitta della sinistra in Tunisia -una delle  più forti insieme a quella del Kurdistan- o una sua alleanza con i militari per scalzare Ennahda dal governo, significherebbe la sepoltura della sinistra araba in uno dei paesi dove ha margini più elevati di azione con le sue organizzazioni di massa e più legittimità popolare dopo 2 anni di intense lotte sociali.

I recenti avvenimenti in Egitto, con la mezza condanna degli USA per la repressione e la minaccia di tagliare il flusso di armi per l’esercito egiziano -anche se gli Stati Uniti mantengono per ora il loro sostegno alle Forze Armate- e l’evidente montatura mediatica in Siria per quanto riguarda l’uso di gas sarin contro i civili, mostrano chiaramente la ricetta tipica dell’imperialismo: se nel paese nordafricano si utilizzano due forze opposte per evitare l’emergere di una terza forza -sia l’esercito che i Fratelli Musulmani hanno beneficiato dell’approvazione di Washington in questi anni- in Siria si cerca di generare uno scenario simile a quello della Libia per consentire l’intervento straniero per fermare le forze che non sono controllabili da parte dell’Occidente.

Come abbiamo detto all’inizio, nonostante tutte le proteste e le manifestazioni, la sinistra -tranne forse in Kurdistan e in Tunisia- non è stata in grado di sviluppare un’alternativa politica che andasse oltre i limiti di quelle richieste democratiche, che non toccavano ovviamente il sistema economico installato da anni nella zona. E’ il caso di chiedersi quale ruolo avranno la Russia e la Cina -protettori del governo siriano- in ciò che accade ora, e quali saranno i risultati e le conseguenze del nuovo tentativo di negoziati in Palestina.

Questo 24 agosto inizia a Erbil, in Iraq, una Conferenza Nazionale Curda che riunisce tutti i partiti politici dei 4 paesi dove ci sono minoranze di nazionalità curda, in cui per la prima volta saranno  faccia a faccia le forze politiche che fanno riferimento ad Ocalan ed i partiti conservatori raggruppati attorno Barzani. Molto di ciò che accadrà nel futuro della regione dipenderà da ciò che verrà fuori da questo incontro; una sinistra rafforzata e sostenuta da 40 milioni di curdi può reindirizzare l’equilibrio in Siria contro l’imperialismo, ma un’ala conservatrice egemone -alleata dagli anni ’90 con la NATO- può finire per seppellire la lotta democratica del paese. I prossimi giorni saranno cruciali.

Note:

1. Alberto Cruz sviluppa questo punto in particolare in un interessante articolo pubblicato sul portale “La Haine” http://www.lahaine.org/index.php?p=63485

2.Lo stesso autore esplora gli effetti che hanno avuto i ritiri dall’Iraq e dall’Afghanistan nella capacità di manovra degli Stati Uniti nella regione in tre articoli. Sebbene diversi fatti riportati risultino superati, l’analisi delle dinamiche tra la superpotenza e le potenze regionali rimane ancora valida. http://www.lahaine.org/index.php?p=52893

3. http://www.rebelion.org/noticia.php?id=106963 y http://internacional.elpais.com/internacional/2010/07/0….html

4. Vedi questa intervista ad un collaboratore di Gheddafi publicata sull’organo di stampa ufficiale del Partito Comunista del Venezuela http://prensapcv.wordpress.com/2013/08/16/entrevista-co…udas/

5. http://online.wsj.com/article/SB118530969571176579.html

6. http://www.intereconomia.com/noticias-gaceta/internacio…30717

7. http://fikraforum.org/?p=1485 y http://www.zerohedge.com/article/stratfor-update-saudi-…hrain

8. http://internacional.elpais.com/internacional/2012/07/0….html, http://sp.rian.ru/international/20120922/155064169.html y http://www.telesurtv.net/articulos/2012/08/10/terrorist….html

9. Una nota del quotidiano El Mundo indica che nel marzo del 2011 il governo già rivedeva le riforme politiche http://www.elmundo.es/elmundo/2011/03/28/internacional/….html

10. http://www.lahaine.org/index.php?p=63485

11. http://www.nabarralde.com/es/munduan/9826-la-autonomia-…icion

12. http://www.elciudadano.cl/2010/08/08/25261/la-cuestion-…ente/

13. Ídem.

14. http://www.infobae.com/2013/06/18/1073347-turquia-al-me…horas y http://desinformemonos.org/2012/11/el-gobierno-turco-ha…urda/

15. http://yakurdistan.blogspot.com/2013/07/reprimen-fuerza….html

16. http://yakurdistan.blogspot.com/2013/05/partidos-politi….html

17. http://solidaridadkurdistan.wordpress.com/confederalism…tico/

18. http://www.cuartopoder.es/terramedia/la-retirada-del-pk…/4995

19. http://www.aawsat.net/2013/08/article55312452

20. http://periodismohumano.com/en-conflicto/la-proxima-bat….html

21. https://solidaridadkurdistan.wordpress.com/2013/08/07/t…iria/

22. http://yakurdistan.blogspot.com/2013/08/exodo-de-kurdos….html

23. http://resistencialibia.info/?p=6131

24. http://www.worldtribune.com/2013/05/31/nato-data-assad-…inds/

25. Si distingue l’atteggiamento di piccole organizzazioni come il “Movimento Socialista Libertario d’Egitto” che ha denunciato subito il nuovo colpo di stato –http://www.revleft.com/vb/statement-egyptian-libertaria…53714, ed i trotskisti “Socialisti Rivoluzionari che  hanno preso rapidamente posizione contro la repressione militare http://apiavirtual.net/2013/08/16/declaracion-de-los-re…ipto/

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