Ottobre, si sta come tre foglie sugli alberi?

Abbiamo passato mesi di soporifera assuefazione agli psicodrammi di una politica istituzionale sempre più avvitata sull’autoconservazione. Una politica paga della riuscita trasformazione autoritaria impressa dalle politiche neoliberali della oligarchia finanziaria. Una elite che ormai comanda ed impera in tutto il mondo, totalmente sorda alle necessità e alle urgenze di una crisi causata dall’esproprio delle ricchezze a danni delle forze più deboli della società. Ma ora  le realtà di lotta e di opposizione ricominciano a muovere qualche passo.

Importanti passaggi nel deserto prodotto del governo unico, orfani di ogni dove che tentano di rinsaldare le fila di una aggrovigliata e complicata situazione.

Da quella che sarebbe stata chiamata in passato la frangia riformista -e che ora è costretta a lottare per conservare qualcosa- si muove un tentativo estremo di ripartire dalla difesa di una Costituzione ormai violentata in tutte le sue parti.  Un tentativo -quello della manifestazione del 12 ottobre a Roma- che vorrebbe perlopiù permettere una ridislocazione intelligente a quanti nella cosiddetta sinistra radicale sono entrati in una fase di convulsione che li ha portati a perdere il senso stesso dell’azione politica. Non certo per rimettere al centro dell’agenda politica la possibilità di contrattare condizioni di difesa di qualsivoglia diritto.

In contemporanea, (ampi) settori di movimento rilanciano una settimana di mobilitazione che parte sempre dal 12 ottobre con una giornata di lotta a difesa dei territori, contro le privatizzazione dei servizi pubblici e la distruzione dei beni comuni e azioni diffuse per il diritto all’abitare, per  terminare in piazza il 19 ottobre, inglobando lo sciopero/manifestazione dei sindacati di base e conflittuali del 18 ottobre, e lanciando mobilitazioni locali il 15 ottobre.

Ma il sindacalismo di base sembra non riuscire ad andare oltre la ritualità dello sciopero generale, pur unendo vecchie e nuove sigle che ancora non trovano uno spazio politico condiviso per battaglie condivise. Anch’esso si dimostra incapace di essere l’alternativa credibile alla difesa degli interessi di classe. E si trova in parte suo malgrado inserito in un percorso plurale che potrebbe essere una bella risposta in attesa della nuova legge sulla stabilità, pronta a tagliare e dismettere quanto di pubblico e di collettivo rimane in questo paese. Siano servizi, posti di lavoro o beni demaniali, tutto è sacrificabile per garantire il rispetto del 3% di indebitamento netto nel 2013.

Nessuna difesa di classe sembra più consentita. Il liberismo dello stato minimo e dei massimi profitti per le imprese private sembra privo di alternativa. Eppure i diversi soggetti che abitano la crisi, rivendicano a sé, a noi, la capacità -comunque declinata, riconosciuta, vissuta- di non non far parte di questo disegno autoritario. Soggetti diversi che rivendicano l’indisponibilità ad essere sacrificati alla  ristrutturazione del capitale. Che rivendicano la possibilità di costruire dal basso soluzioni umane alla rapina capitalistica.

Questa eterogenea assemblea richiama quanti – precar*, lavoratori e lavoratrici, giovani, pensionat*, disoccupat*- richiedono reddito e casa, rivendicano difesa dei territori e possibilità di vita per tutti, nell’esigenza di conquistare spazi ed agibilità politica, per altro affermata in contesti territoriali dove la mediazione politica, quella dei partiti, è completamente saltata.

Una cosa però è chiara a tutti: se è vero che nulla sarà più come prima, che non si tornerà alla vita “pre crisi” e che l’espulsione in massa di forza lavoro e la chiusura di centinaia di fabbriche hanno modificato tanto la composizione ed ancor più la coscienza di classe, è altrettanto vero che il simulacro della democrazia parlamentare mostra la corda proprio di fronte alla necessità del capitale di costituzionalizzare l’avvenuta svolta autoritaria.

La de-integrazione sociale non è più una variante sociologica degli effetti della crisi. E’ e si manifesta attraverso l’esclusione politica e sociale dei ceti subalterni, che in primis subiscono la perdita di salario e di tutele economiche. L’accumulazione per esproprio e l’ideologia dominante della borghesia neoliberale hanno messo in conto i costi che i lavoratori stanno pagando nella ristrutturazione del capitale.

Sappiamo tutti della stretta repressiva già in atto da tempo, con cui si cerca di legittimare l’esclusione politica alla quale tutti siamo sottoposti; sappiamo che la tendenza è come sempre a criminalizzare le lotte e la partecipazione, e come sempre si accenderanno riflettori di una regia complice, per spegnerli poi a piacere e dosarne i fotogrammi nella più classica della disinformazione di regime. Non è un buon motivo per non esserci, non è mai un buon motivo.

Sta a tutte e tutti noi, che non chiediamo nulla al potere politico ed autoritario che governa l’Europa, noi che rifiutiamo ogni approccio nazionalistico all’uscita dalla crisi con ricette che ci porterebbero agli anni ’30,  essere consapevoli che è nei territori che si deve continuare ad alimentare le lotte. Costruendo l’alternativa a questo sistema -dal basso-   rafforzando  e collegando organismi di base capaci di esprimere vertenzialità e conflittualità  a partire dai bisogni immediati e dalla solidarietà reciproca; progettando forme e modi del potere popolare a partire dalle sacche di resistenza e di progettualità che esistono e resistono, creando forme di contropotere costituendo organismi orizzontali e sviluppando prassi libertaria,  patrimonio sempre più largamente condiviso  tra chi ancora lotta e prefigura la trasformazione sociale, tra chi non intende rinunciare ai diritti, alla dignità, alla pace e all’eguaglianza sociale.

SN-FdCA, ottobre  2013


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