Una conversazione con Francesco Aucone, della Federazione dei Comunisti Anarchici
L’idea di realizzare questa intervista ci era venuta già nella seconda metà di giugno, quando avevamo letto il comunicato di indizione della festa di Alternativa Libertaria. L’elemento stimolante dell’iniziativa stava, a nostro avviso, nell’intento di rilanciare con forza, nel contesto attuale, l’ipotesi autogestionaria. Certo, molti rimarranno perplessi di fronte a un simile proposito, perché negli ultimi anni il termine autogestione ha spesso indicato la prassi di liberare spazi, finendo per disinteressarsi del contesto circostante. Ma l’impostazione della Federazione dei Comunisti Anarchici è ben altra, come emerge da questa conversazione. La quale, anche se realizzata a una certa distanza dalla festa, da essa prende le mosse, ritenendola un momento non certo secondario nella vita dell’organizzazione in questione. Ma vengono toccati anche temi come la lotta per (attorno) ai beni comuni e i sommovimenti che, negli ultimi tempi, si sono verificati in varie parti del mondo.
Ci piacerebbe che tu partissi da un bilancio della festa di Alternativa Libertaria, ormai giunta alla sua VII edizione…
L’ultima festa di Alternativa Libertaria si è svolta presso “Casa Bettola”, una casa cantoniera occupata alla periferia di Reggio Emilia, dove i nostri compagni e le nostre compagne condividono lo spazio occupato con cittadini, gruppi ed associazioni. Pur essendo un’iniziativa a carattere nazionale, l’organizzazione della festa è stata specialmente a cura dei compagni e delle compagne di Reggio Emilia e di Correggio, i quali si sono presi carico sia dell’aspetto logistico che dell’organizzazione dei momenti di confronto.
Queste feste rappresentano dei momenti molto importanti per la vita della Federazione perché, al di là degli appuntamenti consueti come i periodici consigli dei delegati e dei più radi momenti congressuali, permettono di confrontarci vis à vis sugli avvenimenti politici e sociali contingenti e di scambiarci opinioni ed esperienze. In più, ci consentono di farci conoscere all’esterno, anzitutto sviluppando uno scambio con le comunità territoriali del luogo ove si svolge la festa.
Ed infatti i dibattiti anche stavolta hanno visto la partecipazione di diversi compagni e compagne esterni alla federazione che hanno arricchito la discussione ponendo importanti questioni.
Qual è stato il filo conduttore della festa?
Il tema guida degli incontri è stato “Un altro comunismo”, inteso nel senso di una visione politica libertaria della necessità economica comunista. In sostanza, abbiamo parlato di un’alternativa al disegno liberista (legato capitalismo privato) da una parte, e al progetto statalista, ancorato alla tendenza accentratrice e verticista del capitalismo di Stato dall’altra.
Ma per quanto gli argomenti toccati richiamino la necessità alta dell’alternativa libertaria, la discussione non si è risolta nel mero vagheggiamento di una società ideale, affrontando i temi concreti della precarietà, della crisi delle rappresentanze politiche e sindacali, dei beni e delle risorse collettive. Abbiamo, cioè, cercato di specificare come i comunisti libertari, i comunisti anarchici ed i libertari di classe possano intervenire sul territorio e quali sono le concrete possibilità che le modalità comuniste libertarie si diffondano sempre più a partire dai nostri settori sociali di riferimento.
Nel comunicato di indizione si faceva cenno a forme di autogestione della vita sociale e politica. Siete consapevoli che ciò viene percepito dai più come la creazione di quegli “spazi liberi”, di gaberiana memoria, che possono risultare avulsi dal contesto circostante?
Le forme di autogestione della vita sociale e politica a cui facciamo riferimento non sono i meri “spazi liberati” in cui ritrovarsi nel dopo lavoro, o nel dopo non lavoro, per cercare di alleviare con lo stare insieme le frustrazioni di una condizione precaria ed alienante. Noi pensiamo piuttosto a forme concrete di sperimentazione di autogestione economica e politica che, pur nel loro carattere embrionale, possano naturalmente entrare in conflitto con il sistema economico e politico autoritario e capitalista.
Sinceramente non so quanto questo sia radicato consapevolmente o meno nelle classi subalterne, ma spesso assistiamo alla nascita spontanea di forme autogestite a partire non tanto da scelte politiche coscienti, quanto da necessità economiche di sopravvivenza. Forme di varia strutturazione e grandezza, spesso individuali o microscopiche, che talvolta muovono da un singolo aspetto della nostra vita, ma tutte degne di attenzione in quanto possibili embrioni di un sistema diverso di produzione, distribuzione e consumo. Dalle comuni libertarie come “Urupia” ai singoli individui che occupano un pezzo di terra per coltivarla e instaurano un rapporto economico-solidale con un Gas (Gruppo di acquisto solidale), fino alle comunità territoriali che lottano sì in relazione ad una singola problematica ambientale ma che così facendo pongono le basi per una diversa gestione delle risorse collettive. Per non dire dei diversi casi di occupazione e autogestione delle fabbriche abbandonate dai padroni in fuga dalla crisi: dal nostro punto di vista, tutte le sperimentazioni autogestionarie sono importanti.
Purtroppo bisogna fare i conti con secoli di gestione autoritaria, paternalistica e classista delle risorse territoriali e della produzione e con secoli di abitudine alla delega da parte delle classi sfruttate. A mio parere ci vorrà molto tempo già solo perché l’umanità sfruttata si renda conto delle sue immense potenzialità autogestionarie.
Hai appena citato quei casi in cui si verifica il controllo diretto della produzione da parte dei lavoratori, che in questi anni sono stati diffusi soprattutto in contesti segnati da una crisi più evidente che altrove (Argentina, Grecia). Avete contatti con coloro che animano queste esperienze e che valutazione specifica ne date?
Si tratta di esperienze fondamentali perché riguardano il cuore del sistema capitalistico, cioè il settore produttivo.
Non abbiamo contatti diretti con queste esperienze ma ne riceviamo notizie dalle nostre organizzazioni sorelle dei paesi di appartenenza.
L’esperienza delle tante cooperative e spesso finte cooperative sorte negli ultimi decenni in Italia ci ha mostrato chiaramente quali sono i rischi che minacciano le esperienze autogestionarie: dall’autosfruttamento alla trasformazione lenta, ma inesorabile, sotto l’incalzare delle leggi del mercato capitalista, in imprese tra le imprese. È chiaro che le condizioni favorevoli o meno alla diffusione dell’autogestione nella produzione dipendono molto dal contesto-storico sociale e dalla fase economica. Durante la “breve estate dell’anarchia” spagnola degli anni ’30 vi erano presupposti oggettivamente favorevoli alla diffusione dell’autogestione e la classe operaia, orientata dalle organizzazioni sindacali e politiche anarchiche e comuniste libertarie, ha per così dire colto la palla al balzo. Oggi, anche nel settore produttivo, quello che favorisce l’occupazione di fabbriche, più che una coscienza politica, è la necessità di sopravvivenza di tante famiglie che si trovano senza sussistenza economica in seguito all’abbandono dei padroni.
Tenendo presente questi rischi ed i conseguenti limiti di queste esperienze in una fase storico-economica sfavorevole, esse rappresentano comunque delle azioni importanti da parte della classe lavoratrice. Perché, pur non costituendo la svolta verso l’instaurazione di rapporti sociali in senso comunista libertario, partono da esigenze ben precise e rappresentano delle palestre fondamentali dove sperimentare rapporti socio-economici solidali mediante la pratica dell’autogestione. All’interno della fabbrica così come tra la fabbrica ed il territorio.
Oltretutto queste esperienze, insieme ad altre simili come quella dell’occupazione delle terre a fini produttivi, possono contribuire alla realizzazione di forme di resistenza collettiva nonché di supporto materiale alle nostre classi di riferimento; una sorta di sussistenza proudhoniana che, insieme a forme solidali come le casse di resistenza, può contribuire anche al sostentamento di lotte territoriali e sindacali ed in definitiva allo spostamento dei rapporti di forza un po’ più in nostro favore.
Leggendo i vostri documenti, siamo rimasti colpiti dal fatto che anche voi adottate la definizione beni comuni. In quale chiave? C’è chi con essi intende semplicemente il rilancio del welfare state con una verniciata di “democrazia partecipativa”…
Noi parliamo di beni comuni e/o collettivi, ma rifiutiamo il significato che al termine viene dato da un’ampia parte della sinistra, per la quale l’insieme dei beni collettivi viene creato dal (o appartiene al) potere statale ed economico. A volte ho sentito parlare di patria bene comune e banche bene comune… 1+1 porta dritti al nazionalismo statalista.
Ma forse è meglio entrare nel merito di ciò che intendiamo con questa definizione. Essa comprende prima di tutto quelle risorse che sono essenziali per la nostra sopravvivenza fisica: l’acqua nelle sue varie forme di deflusso (fiumi, sorgenti) ed accumulo (laghi, mari, falde acquifere), la vegetazione nelle varie forme bioclimatiche; in più vi sono i beni comuni globali, non quantizzabili in unità di risorse: l’atmosfera, il clima, la salubrità dell’ambiente, il bagaglio di conoscenze umane; infine l’insieme comprende quella categoria di beni comuni che possiamo definire servizi pubblici. I quali storicamente sono variabili, costituendo il risultato dello sviluppo economico e della lotta delle classi, ma in generale fanno capo ai bisogni essenziali dei cittadini: l’erogazione dell’acqua, della luce, il sistema dei trasporti, la sanità, l’istruzione, la sicurezza sociale e tutto ciò che va sotto la definizione di welfare.
Intorno ai beni comuni così definiti c’è sempre stata lotta economica, specialmente tra quei soggetti sociali la cui esistenza dipende molto dalla loro presenza e chi invece vorrebbe farli rientrare all’interno delle logiche del mercato.
Anzi in periodi come l’attuale, in cui assistiamo all’inasprimento del liberismo, la lotta attorno ai beni comuni si accentua, così come la spinta a privatizzarli. E questa tendenza ha inoltre allargato la battaglia non solo a terre o risorse naturali, ma anche appunto ad un’amplissima gamma di beni e servizi necessari alla sussistenza degli umani e al loro benessere collettivo.
Fino ad oggi, a parte qualche esempio limitato nel tempo e/o nello spazio, si sono susseguiti e si susseguono due modelli gestionali delle risorse e dei beni collettivi: quello liberista e quello statalista. Se il capitalismo liberista ha sempre giustificato l’espropriazione, da parte di pochi delle risorse di tutti, con il pretesto della scarsità delle risorse stesse, limitandone l’accesso e la fruizione, la statalizzazione, ovvero la gestione diretta delle risorse da parte dello Stato, prevede l’esistenza di un superarbitro esterno che al di sopra dell’interesse individuale garantirebbe un uso razionale del bene collettivo, limitando i comportamenti egoisti ed anticollettivi.
Ma gli esempi che la storia e l’attualità ci offrono insegnano che ambedue questi modelli sono inadeguati.
Potresti entrare nel merito, precisando cosa addebitate ad ognuna delle due modalità più diffuse di gestione del bene collettivo?
Certo. Nel primo modello la gestione privata trasforma una risorsa collettiva in una merce qualsiasi, conseguentemente sottoposta alle leggi del profitto e ai capricci speculativi del mercato capitalistico. La concorrenza tra privati impone di mantenere il rapporto costo/benefici il più basso possibile. Per la collettività questo si traduce in un aumento dei costi da pagare sotto forma di bollette, di tributi e/o quote sociali, a seconda della tipologia del bene (aumento dei benefici per il gestore privato) e in un peggioramento del servizio (diminuzione dei costi per il gestore privato).
Con la gestione privata dei beni comuni, inoltre, la collettività, specialmente nella sua porzione più disagiata economicamente, paga un forte prezzo anche dal punto di vista del benessere ambientale, in quanto numerosi beni comuni, come il clima, l’atmosfera e tutta la sfera ecologica nel suo insieme, vengono sottoposti a varie tipologie d’inquinamento.
Nel secondo modello abbiamo molteplici esempi in cui la gestione delle risorse collettive e dei beni comuni ad opera dello Stato o delle sue espressioni territoriali (Regioni, Province e Comuni) produce disservizi ed in generale una cattiva gestione delle risorse stesse.
La ragione risiede nel fatto che il gestore, rappresentato dagli apparati burocratici statali, centrali o decentrati, viene a trovarsi inevitabilmente lontano dalle istanze e dalle esigenze delle comunità locali.
Questo si verifica sia in regime di Capitalismo di Stato, dove la “classe” dei burocrati spende le sue energie specialmente a garantire i propri privilegi rispetto al resto della popolazione ed a riprodurre la propria condizione di “classe” privilegiata, che in regime misto privato-pubblico, dove anzi la mala gestione viene accentuata, in termini economici e di peggioramento della qualità della risorsa, dai rapporti di corruzione tra amministratori pubblici ed imprenditori.
Tuttavia bisogna anche essere coscienti che la gestione delle risorse collettive e dei beni comuni da parte del capitalismo liberista produce, rispetto alla gestione statale, un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice e dei più poveri, in quanto l’elemento privato introduce un più chiaro e netto differenziale mercificante nella risorsa collettiva.
Per questo in un periodo storico in cui assistiamo ad un sempre più feroce attacco liberista nei confronti dei beni comuni e delle risorse collettive, come anarchici di classe ci adoperiamo insieme ai comitati territoriali, affinché venga arrestata il più possibile tale offensiva.
Allo stesso tempo, mentre lottiamo contro le privatizzazioni, proponiamo la nostra idea di governo delle risorse collettive, ossia l’autogestione ed il controllo diretto delle risorse vitali di un territorio mediante degli organismi locali dei produttori, con forme organizzative assembleari ed orizzontali.
Mentre svolgevate la festa, e nelle settimane successive, nel mondo si scatenava il conflitto e, dalla Turchia al Brasile, milioni di persone scendevano in piazza. Ne avete discusso?
Impossibile non parlarne. Ogni movimento che nasce dal basso, pur se connotato spesso da istanze interclassiste, racchiude in sé anche la spinta conflittuale delle classi sfruttate, certo mescolata a quelle di altri settori sociali in un calderone ampio e nebuloso.
Bisogna tenere presente comunque il ruolo dei media ufficiali, che quando non possono omettere, mistificano. Di quello che succede nel “lontanissimo” Messico zapatista si può anche tacere, vista la distanza non solo geografica, ma di quanto avviene in Turchia o in Brasile non si può tacere, vista la vicinanza, anche geografica nel primo caso, ma soprattutto economico-strategica in entrambi. Ed ecco allora che da parte dei media ufficiali scatta la parziale omissione e/o la mistificazione degli avvenimenti.
Spesso vengono messe in luce solo motivazioni laiche e democratiche, e queste sicuramente ci sono, specialmente nei confronti del comune tentativo del governi turco e di quello, spodestato, dell’Egitto di restringere le libertà della popolazione in senso islamista. Ma mi sembra che il minimo comune denominatore che unisce le lotte turche ed egiziane anche a quelle brasiliane sia di carattere economico e legato alle scelte liberiste dei rispettivi governi, destri o sinistri che siano, che restringono le possibilità socio-economiche delle classi sociali più deboli e specialmente degli elementi più giovani di queste.
L’elemento che divide Turchia ed Egitto da una parte e Brasile dall’altra è che nei primi due paesi è in atto un tentativo di conciliare una struttura liberista con un regime politico pseudo-democratico a carattere fortemente autoritario (per inciso: questo problema l’Egitto non l’ha certo superato con il regime dei militari).
Voi avete dei contatti, dei rapporti con realtà libertarie di questi paesi?
Anche in questo caso, ci arrivano notizie da compagni e compagne locali e dalle organizzazioni anarchiche.
In Turchia, così come nei paesi citati, la situazione è molto variegata e nel movimento anti Erdogan confluiscono istanze composite. Kemalisti (legati quindi ad una idea di laicismo autoritario), islamici anticapitalisti, gruppi della sinistra e, in una seconda fase, anche gruppi Kurdi. Le manifestazioni di opposizione hanno visto la partecipazione di centinaia di migliaia di persone con una componente giovanile molto forte. La situazione economica turca è sicuramente migliore rispetto a quella egiziana, visti i tassi di crescita economica registrati negli ultimi anni.
Quindi, pur essendo molto presenti le istanze di una diversa distribuzione delle ricchezze, poiché la situazione economica dei giovani è meno disperata di quella vissuta dai coetanei egiziani, probabilmente le rivendicazioni di una maggiore libertà nei costumi e nelle scelte di vita assumono un carattere più pregnante.
Ad ogni modo, si tratta di una situazione complessa, che si deve valutare a partire da una constatazione: la Turchia, più che come appartenente alla schiera dei paesi islamici, deve essere ormai considerata come una parte della periferia orientale dell’Europa.
A cura de Il Pane e le rose – Collettivo redazionale di Roma
(27 Luglio 2013)